Quante volte abbiamo sentito esponenti anti-OGM italiani, compresi ministri
ed ex-ministri sia del centrodestra che del centrosinistra, dire che le colture
transgeniche non sono adatte alla tipicità dei prodotti italiani? Che gli OGM,
casomai, servono alle grandi colture: alla soia, al cotone, alla colza e al mais
ma non ai nostri pomodori o al nostro riso? Una tecnica di persuasione molto
utilizzata, da partiti politici, da agenzie pubblicitarie piuttosto che da
Organizzazioni Non Governative, consiste nel ripetere sino alla noia una frase,
uno slogan, martellante, per far si che riesca a penetrare le barriere del
pensiero critico e venire assorbito senza dubbi. Questa tecnica di persuasione è
tanto più efficace tanto più il “target” (nell’irritante linguaggio dei
pubblicitari voi ed io siamo dei “target”, dei “bersagli” da colpire con i loro
messaggi ossessivi) è omogeneo e ideologicamente ben disposto a ricevere i
“messaggi” del persuasore. Dopo un po’ i messaggi arrivano direttamente senza i
filtri scomodi della parte razionale del cervello che cerca di chiedersi
“perché?”. Perché devo comperare dell’acqua in bottiglia che ha “solo” lo 0.001%
di sodio? Ma lo 0.001% di cosa? Peso? Volume? Numero di molecole contenute? E lo
0.001% è tanto o poco? Ma soprattutto, vale il prezzo che mi chiedono?
Questi slogan, camuffati da idee intelligenti (a tutti noi piace sentirci
intelligenti
), vengono ripetuti e passati di bocca in bocca, con sicurezza, anche se spesso
si conosce l’argomento solo per sentito dire.
Gli attivisti anti-OGM ripetono ossessivamente l’idea che gli OGM non servono
alle colture tipiche. E questo fatto viene spesso ripetuto senza un minimo di
ragionamento critico, senza mai chiedersi “perché mai non potrebbero servire?”.
Già, perché?
Un esempio vale più di mille discorsi, per cui questa volta vi racconto una
storia a lieto fine con protagonista una coltura tipica salvata dagli OGM. Vi
parlerò della Papaya delle Hawaii.
La Papaya

La papaya è un frutto carnoso che cresce ai tropici ed è prodotta
commercialmente da molte nazioni, tra cui il Brasile, l’Indonesia, il Messico,
la Thailandia, la Nigeria, l’India e molte altre. La papaya è una delle colture
tipiche delle Hawaii. Questo frutto saporito, ricco di vitamina A e di vitamina
C, è spesso consumato fresco, oppure utilizzato per produrre succhi, conserve e
dessert. Il Muesli che mangio ogni mattina a colazione contiene anche
pezzi di papaya. Questo frutto esotico ormai lo si può trovare anche nei grandi
supermercati italiani.
Il Virus
In tutto il mondo le colture di papaya sono attaccate da un virus: il PRSV
(Papaya RingSpot Virus). Questo virus viene trasmesso dagli afidi, e non è
possibile curare una pianta infettata. La pianta malata perde la capacità di
effettuare la fotosintesi clorofilliana. I sintomi appaiono dopo circa tre
settimane dall’infezione. Le piccole pianticelle infettate muoiono in poco
tempo. Le piante più vecchie subiscono un ingiallimento, i loro frutti
diminuiscono di peso o vengono deformati e viene ridotto il contenuto di
zuccheri. Alla fine anche le piante adulte muoiono.
L’unico rimedio per
evitare il diffondersi del virus è la distruzione totale delle piante infette,
avendo cura di distruggere anche le cucurbitacee (le zucchine ad
esempio) nelle vicinanze, poiché il virus sopravvive anche su quelle.
Il
virus fece la sua comparsa nelle piantagioni di Papaya delle Hawaii negli anni
‘40, e nel giro di un decennio cominciò a creare seri problemi all’industria
della Papaya. A quel tempo le piantagioni di Papaya Hawaiana erano localizzate
sull’isola di Oahu, ma verso la fine degli anni ‘50 il virus prese il
sopravvento e, ormai senza più controllo, costrinse ad un massiccio spostamento
delle piantagioni su un’altra isola, nella regione di Puna dell’isola di Hawaii.
Il clima favorevole, l’assenza del virus RingSpot e l’ottimo adattamento di una
varietà alla regione (la cultivar Kapoho) permise il prosperare della
coltivazione della Papaya. Negli anni ‘70 circa il 95% della produzione di
Papaya delle Hawaii, 2500 acri, era localizzata nella regione di Puna. Una
produzione tipica, appunto.
Un vaccino genetico
Per rendere la papaya resistente al virus si usa una tecnica concettualmente
simile alla vaccinazione. Quando venite vaccinati vi viene inoculato nel corpo
del virus attenuato: pezzi delle proteine di cui è composto il virus e pezzi del
suo codice genetico. Questo fa sì che il vostro sistema immunitario impari a
“riconoscere” il virus, attraverso i vari pezzettini inoculati. Quando poi il
vostro organismo dovesse venire a contatto con un’epidemia di quel virus, sarà
già “attrezzato” per riconoscerlo e per scatenare la risposta
immunitaria.
Questa tecnica si può utilizzare anche con i virus vegetali, ed
è stata tentata anche per combattere il Ringspot Virus della papaya. Le piante
venivano inoculate di una coltura di virus attenuato, e questo serviva per
proteggerle dalla versione più potente del Ringspot. Tuttavia questa tecnica,
sebbene fosse abbastanza efficace nel proteggere le piante di Papaya
dall’epidemia di virus, non era commercialmente molto allettante, perché
comunque i sintomi della malattia lasciavano alcuni segni sui frutti. Poiché
nella regione di Puna il virus era sconosciuto, fino al 1992, per non diminuire
il valore commerciale delle piante si preferì non vaccinarle. Ma gli scienziati
sapevano che era solo questione di tempo perché il virus facesse la propria
comparsa sull’isola di Puna e distruggesse le coltivazioni di papaya, e si erano
già messi al lavoro da vari anni.
Un vaccino dona all’organismo inoculato una resistenza ad un virus, ma i sui
figli non godono della stessa protezione. E’ possibile però, grazie alle
biotecnologie, “inserire” la vaccinazione nel codice genetico della pianta, in
modo tale che possa venire automaticamente trasmessa ai figli. Fu questa la
strategia che alcuni ricercatori dell’Università delle Hawaii e di Cornell, in
collaborazione con Dennis
Gonsalves, del settore Ricerca del Ministero dell’Agricoltura degli Stati
Uniti, decisero di attuare. Tra parentesi notate la differenza: negli USA il
ministero dell’Agricoltura finanzia ricerche sugli OGM per salvare delle colture
tipiche, in Italia il Ministero dell’Agricoltura taglia i finanziamenti per
impedire agli OGM di fare altrettanto.
Era solo questione di tempo prima che il virus irrompesse anche nella regione
di Puna, e distruggesse le coltivazioni di papaya. Meglio cercare una soluzione
per tempo.
Nel 1986 il gruppetto di scienziati riuscì a identificare e a clonare la
sequenza di una delle proteine di cui è composta la capsula esterna del virus.
Le stesse proteine che vengono utilizzate nei processi di vaccinazione. L’idea
era di inserire la sequenza della proteina direttamente nel DNA della pianta di
Papaya, come se fosse una vaccinazione permanente, in modo tale che potesse
anche essere trasmessa automaticamente alla progenie.
E’ bene chiarire che la proteina del virus non ha
nulla di “virale”, non è infettiva e non genera nessun tipo di
malattia.
Un cannone a DNA
La tecnica utilizzata per inserire la sequenza della proteina fu il metodo
“biolistico” appena inventato. In pratica vengono sparate nelle colture di
tessuti di Papaya delle piccole palline di tungsteno del diametro di un
millesimo di millimetro ricoperte dalle sequenze di DNA che si vogliono
inserire. Se queste palline, sparate da un “fucile a geni”, vanno a segno
penetrando nella cellula, rilasciano il DNA che può, con un po’ di fortuna,
venire incorporato nel DNA della cellula. Mediante questa tecnica furono
ottenute 17 piante che vennero immediatamente inoculate con il virus per
scoprire se fossero divenute resistenti. Nel 1991 venne identificata una pianta
trasformata resistente al virus. La pianta trasformata era della varietà
Sunset, dalla polpa rossa, commercialmente meno pregiata della varietà a
polpa gialla Kapoho che inizialmente non si riuscì a trasformare. Ora
anche la varietà più pregiata Kapoho è stata trasformata e resa
resistente al virus. Immediatamente venne approntata una sperimentazione in
campo aperto per verificare che la pianta fosse effettivamente resistente al
virus nelle condizioni reali. Capite benissimo come sia impensabile fare
ricerca sugli OGM senza prevedere sperimentazioni in campo aperto, come
si pretende in Italia.
La sperimentazione si dimostrò un successo (nella foto vedete a sinistra una
pianta di Papaya trasformata resistente al virus e a destra una pianta infettata
dal virus)

L’inizio della fine
Nel maggio del 1992 il terribile virus Ringspot venne scoperto a Puna e
comincia a dilagare nelle piantagioni, con effetti devastanti, come potete
vedere nella foto.

All’inizio si cercò di contrastare l’avanzata dell’epidemia distruggendo le
piante infette, ma verso la fine del 1994 l’epidemia era ormai fuori controllo.
Le piante geneticamente modificate per resistere al virus piantate nel campo di
controllo invece godevano di ottima salute.
Nella foto potete chiaramente vedere un blocco centrale di papaya OGM
circondato da moribonde piante non resistenti al virus.

Qui potete osservare a destra la varietà GM resistente al virus, a sinistra
la varietà non resistente.

Due nuove varietà

Quando si è sicuri di aver inserito in modo stabile il DNA desiderato nella
pianta ospite, normalmente si procede ad incrociare questo OGM primitivo con
altre varietà, per trasferire il gene. Vennero generate due nuove varietà
considerate commercialmente valide: la varietà SunUp dalla polpa rossa,
praticamente la Sunset originale con in più il gene per la resistenza,
e la varietà Rainbow dalla polpa gialla, un ibrido tra la transgenica
Sunset e la Kapoho, la varietà tipica della
regione.
L’epidemia ormai aveva ridotto la produzione a 2,5 tonnellate per
acro per anno di frutti, mentre la varietà GM Rainbow ne produceva 60
tonnellate. Gli agricoltori furono particolarmente impressionati dalle
caratteristiche della Rainbow, che oltretutto maturava prima della
Kapoho e aveva rese superiori.
Il salvataggio
Se nel 1992 la produzione di Papaya toccava le 26.000 tonnellate, a causa
dell’epidemia nel 1995 era scesa a 19.000 tonnellate, e si sarebbe ridotta fino
a 12.000 nel 1999.

Ecco un agricoltore che mostra (nel 1995) le sue piante infette.
Nel 1995 iniziò la richiesta di autorizzazione per l’introduzione commerciale
della papaya OGM presso i Ministeri e gli organismi interessati: l’EPA
(l’agenzia per la protezione dell’Ambiente), l’FDA (Food and Drug
Administration) e il Ministero dell’Agricoltura. La procedura burocratica durò
quasi tre anni (confrontate con quanto accade in Europa dove tutto è
meticolosamente pensato per impedire l’approvazione degli OGM in tempi
realistici). Ad Aprile del 1998 venne finalmente ottenuta la licenza per
commercializzare i semi di papaya OGM, e nel maggio i semi vennero distribuiti
gratuitamente agli agricoltori che ne avessero fatto richiesta. Erano passati 7
anni dal momento in cui venne ottenuta la prima papaya OGM in laboratorio. Nel
1999 cominciarono i primi raccolti di papaya OGM, che incontrò i favori dei
consumatori. Nel 2001 la produzione di Papaya era risalita a 23.000 tonnellate.
L’industria della Papaya, coltura tipica delle
Hawaii era stata salvata dalla distruzione.
I campi
abbandonati dopo l’avvento del virus vennero rapidamente ripopolati con la
papaia resistente.
La Papaya non OGM
La Papaya OGM venne accettata dal mercato canadese nel 2003. Il mercato
giapponese e quello Europeo invece vogliono la varietà non OGM, e c’è persino un
piccolo mercato di nicchia di Papaya biologica.
Ironia della sorte, l’introduzione massiccia della Papaya OGM ha contribuito
a ridurre drasticamente l’epidemia di virus Ringspot e ha permesso la
continuazione della coltivazione della Papaya non transgenica. Spesso i campi di
papaya non transgenica vengono completamente circondati da alcune file di papaya
OGM per proteggerli efficacemente dal virus, sempre in agguato.
Se non fosse
stato per l’introduzione della papaya OGM, oggi non sarebbe possibile coltivare
papaya convenzionale alle Hawaii. Che piaccia o meno, la biotecnologia ha
salvato l’intera industria della papaya, e cosa ancora più
ironica, permette la sopravvivenza, arginando il virus, dei produttori di papaya
biologia che altrimenti sarebbero stati spazzati via. Poiché il Giappone e
l’Europa non accettano la papaya OGM il giro d’affari globale si è ridotto, e
Greenpeace, distorcendo la realtà, sostiene che “la papaya OGM ha portato gli
agricoltori delle Hawaii al disastro economico”. La logica di Greenpeace è che
la rovina economica totale di tutti gli agricoltori di Papaya,
dovuta all’epidemia del virus è accettabile. Dopotutto il virus è “naturale”. Il
salvataggio economico di alcuni agricoltori invece non è
accettabile perché si è utilizzata la tecnologia transgenica.
Vi pare sostenibile come argomentazione? Nel corso degli anni Greenpeace ha
acquisito credibilità, e molte persone si fidano ciecamente di quanto afferma.
Io invece per principio non mi fido mai ad occhi chiusi, di nessuno, e quando
posso cerco di attingere alle fonti originali, che solitamente trovare citate in
fondo all’articolo. E quando mi accorgo che qualcuno mi ha raccontato, negli
anni, un sacco di frottole o di mezze verità per me perde credibilità di
qualunque cosa parli.
Coesistenza
La coesistenza è possibile, non solo a livello “genetico” ma anche a livello
umano. C’è un gruppo di opposizione “dura” alle biotecnologie, stile Greenpeace,
ma c’è anche voglia di collaborazione da entrambe le parti. Addirittura Richard
Manshardt, uno degli sviluppatori della papaya transgenica, ha fornito ad
agricoltori biologici un nuovo test per verificare se le loro papaya contenevano
dei geni modificati. Per far funzionare la coesistenza è necessario che
coltivatori OGM e non-OGM si parlino e collaborino. Gli esperimenti hanno
mostrato che bastano 400 metri di distanza per evitare incroci indesiderati tra
papaya OGM e papaya convenzionale. E’ cruciale però che vi sia collaborazione
tra agricoltori vicini, che chi coltiva papaia transgenica lo comunichi ai
vicini che, magari, desiderano coltivare papaia biologica, affinché prendano
tutte le precauzioni per evitare impollinazioni indesiderate. E i coltivatori
biologici che si considerano troppo vicini ad un campo di papaya OGM, comunque
un’esigua minoranza, per avere la certezza che il gene della resistenza al virus
non entri nei loro frutti, mettono semplicemente dei sacchetti di carta attorno
ai fiori di papaya durante la fioritura, per essere sicuri che avvenga solamente
l’autoimpollinazione.
La migliore dimostrazione che la coesistenza è
possibile sta nel fatto che tuttora il Giappone continua ad importare dalle
Hawaii la papaya non-OGM e solo quella. Il Giappone richiede test genetici prima
di approvare lo sbarco di un carico di papaya dai propri porti, e se avesse
trovato la benché minima traccia di contaminazione avrebbe già da tempo bloccato
tutte le importazioni.
La disinformazione di professione
Quindi i fatti, incontestabili, sono che grazie alle biotecnologie si è
evitato il disastro, e cioè l’estinzione totale della papaya dalle Hawaii.
Ora che avete capito cos’è e come è stata ottenuta la papaya transgenica, vi
spiego un po’ come funziona la disinformazione anti-OGM. Spesso i gruppi
antibiotech citano dei “rapporti” provenienti da un fantomatico Institute for Science in
Society, fondato da Mae Wan Ho e Joe Cummins, associazione anti-OGM con
sito web fornito di banner per donazioni con carta di credito (cosa non si fa
per la causa…). Lo Scandalo della Papaya GM, strilla una loro
pubblicazione “la papaya ogm
potrebbe causare allergie“. Il corsivo è mio. Se ci fate caso le
pubblicazioni anti-ogm, al pari della peggiore pubblicistica delle
multinazionali del biotech, sono pieni di “forse“, “potrebbe“,
“c’è la possibilità che“, “in un futuro prossimo” “non si
può escludere che” e via discorrendo.
Il sito, che purtroppo viene spesso preso sul serio dai media italiani e da
alcune ONG che ne riportano le veline pseudoscientifiche, è pieno di altre
chicche se vi volete divertire: dall’omeopatia alla fusione fredda, alla scienza
olistica (sic!) e altro. Questo è il rovescio della medaglia della libertà che
ci fornisce Internet: chiunque può fondare un’associazione, chiamarla
Institute, sedersi alla tastiera e pubblicare qualsiasi cosa, magari
chiamandolo pomposamente “report”. Inutile dire che dal punto di vista
scientifico questi “report” valgono come il due di picche quando briscola è
fiori. Capisco però il disorientamento che prova un normale cittadino che non ha
i mezzi per distinguere una pubblicazione scientifica con tutti i crismi da un
articolo raffazzonato che non vale nulla, soprattutto quando lo vede citato da
qualche giornalista che non si è preso la briga di verificarne la qualità
scientifica.
Ma torniamo alla Papaya e come al solito vediamo i fatti.
L’accusa dell’Istitute for Science in Society è che “La Papaya
transgenica è stata approvata nonostante la proteina del virus Ringspot, la cui
sequenza è stata inserita nel DNA della papaya, è un potenziale
allergene perché contiene una sequenza di 6-7 aminoacidi identica ad un
allergene noto“
E’ fondata l’accusa? Prima di proseguire ricordate che un “potenziale”
allergene può benissimo risultare un “attuale” non-allergene, così come io, con
un biglietto della lotteria di capodanno in tasca, passo dallo stato di
“potenziale milionario in euro” a “attuale impiegato statale” nel giro di
qualche minuto di estrazioni.
Gli OGM oggi in commercio sono generalmente
considerati più sicuri di altri alimenti, per il semplice motivo che hanno
subito molti più controlli, tra cui quelli per verificare la presenza di
sostanze allergeniche.
Per scovare dei “potenziali” allergeni si confrontano
le proteine “nuove” che l’OGM produce con una serie di allergeni noti. Se un
pezzo di una proteina (tecnicamente una sequenza di aminoacidi) coincide con un
pezzo di allergene noto, allora scatta la bandiera rossa: c’è un “potenziale”
allergene.
Ma un “potenziale” allergene è “sicuramente” un allergene? Certo che no, ma
la disinformazione non bada a certe sottigliezze: l’importante è impaurire il
pubblico. L’EPA, l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente statunitense, ha
approvato la papaya OGM senza richiedere ulteriori analisi al team di scienziati
guidato da Gonsalves.
Come mai? Prezzolati dalle multinazionali ? (anche se
in questa storia di cattive multinazionali non c’è nemmeno l’ombra essendo tutti
ricercatori pubblici)? Colpevoli di aver trascurato il rischio per i
consumatori, esposti ad un nuovo potenziale allergene?
Beh, tanto nuovo non
era questo “sempre potenziale” allergene, ragionò l’EPA, visto che in tutto il
mondo milioni di persone, e sulle Hawaii dal 1992, mangiavano non solo la
proteina del virus ma anche il virus stesso, consumando i
frutti di Papaya infettati dal virus ringspot. In alcuni paesi poi, come Taiwan
e Brasile, il virus attenuato veniva inoculato a mo’ di vaccinazione nelle
papaye vendute poi liberamente. E come ciliegina sulla torta, il virus Ringspot
è comunemente presente anche sulle zucchine che centinaia di milioni di persone,
io e voi compresi, consumano regolarmente.
E se proprio fosse rimasto qualche
dubbio, dal 1998 più di 50.000 tonnellate di papaya OGM sono stati consumati,
senza nessun caso documentato di allergia o altri problemi.
Per poter essere commercializzato un OGM deve essere “sostanzialmente
equivalente” al prodotto non transgenico. La papaya OGM ha lo stesso profilo
vitaminico, le stesse proprietà, e come abbiamo visto, non aumenta i rischi di
allergia a cui il normale consumatore di Papaya. Qualcuno sostiene che ha
persino un gusto migliore, ma non avendola provata non mi pronuncio.
Secondo voi avrebbe senso impedire la vendita di papaya che contiene una
proteina di un virus, a mò di vaccinazione, e lasciare libera la vendita di
papaya che contiene direttamente il virus? Che senso avrebbe?
Ma veniamo a Greenpeace: la sua strategia è diversa. Non può contestare il
fatto che effettivamente la papaya OGM ha salvato dall’estinzione un prodotto
tipico, che non pone nessun rischio alla salute, che non ha
controindicazioni, e che la coesistenza, come dimostrano le esportazioni in
Giappone, è possibile. Allora cerca di dimostrare che in realtà la papaya OGM
non è un buon affare comunque. Un suo opuscolo
(ovviamente ripreso da tutti i media, compresi quelli nostrani! Chissà come
mai non citano mai la campana opposta!) cerca infatti di dimostrare che,
nonostante le biotecnologie, il business è in declino. Cosa verissima, come vi
ho già detto, e ci mancherebbe visto che Europa e Giappone non accettano la
papaya OGM. In più c’è stato un calo generalizzato dei prezzi che nulla ha a che
fare con gli OGM poiché la produzione mondiale aumenta. Quindi secondo la logica
di Greenpeace, visto che l’industria della papaya non è tornata ai suoi fasti di
decenni prima, la “colpa” è degli OGM. Molto meglio, concludo io, che tutti gli
agricoltori fossero spariti per colpa del virus ? Aristotele e la sua logica,
secondo me, si stanno rivoltando nella tomba. Tra l’altro, volendo, si
potrebbero fare le pulci ai dati riportati dal libercolo. I dati ufficiali dell’USDA
mostrano che nei due anni successivi all’introduzione della papaya modificata la
produzione è aumentata, segno che gli OGM hanno funzionato. Questo Greenpeace
evita accuratamente di dirlo. Mentre negli ultimi anni è diminuita, e questo
ovviamente Greenpeace lo rimarca. nel 2006 la varietà OGM di papaya rappresenta
il 58% del totale, e questa percentuale è aumentata rispetto
agli anni precedenti. A dimostrazione che non è il fatto di essere OGM che ha
fatto diminuire i prezzi. Ma mettersi a fare le pulci ai numeri di Greenpeace è
un esercizio tutto sommato facile ma secondario. E’ invece fondamentalmente un
problema di logica.
Il punto logico fondamentale e innegabile è che grazie agli OGM ora gli
agricoltori delle Hawaii hanno la possibilità di scegliere. C’è
chi decide di continuare a coltivare papaya, e chi preferisce cambiare coltura.
Chi preferisce la papaya OGM e chi invece continua a coltivare quella normale
(salvata, è bene ripeterlo, proprio grazie a quella geneticamente modificata!).
L’agricoltura è un’attività che, come tutte le altre attività economiche, deve
produrre profitto; questo gli attivisti, persi nella loro battaglia ideologica,
spesso se lo dimenticano. L’importante è che ora gli agricoltori Hawaiani hanno
la possibilità di scegliere cosa è più economicamente vantaggioso per loro.
Ma il virus non attacca solo alle Hawaii. E’ presente anche in
Thailandia, in Indonesia, in Messico. E questi paesi stanno sperimentando la
papaya OGM, proprio per dare ai loro agricoltori la stessa possibilità di
scelta. Tra l’altro alcuni paesi esportano prevalentemente negli Stati Uniti,
che non avrebbero certo problemi ad acquistare papaya OGM. Soprattutto in
Thailandia la papaya OGM è ad uno stadio molto avanzato di sviluppo, e tutto
questo è un pericolo enorme per Greenpeace e le altre organizzazioni
anti-biotech: sanno benissimo questi attivisti che se anche UN
solo ogm viene accettato, tutta la loro campagna costruita per
demonizzarli in toto cadrà come un castello di carte al vento. E allora
perderanno consenso. Quindi in Thailandia le famose messeinscena con la
tuta bianca sono ancora organizzate. E ovviamente la strategia in Thailandia è
ancora la vecchia solita: gli OGM sono pericolosi, non sappiamo, non conosciamo,
potrebbero, probabilmente, forse, etc, etc…
Ma come? Nelle Hawaii è un problema di dollari $$$ mentre in Thailandia
ritorna ad essere un problema sanitario? Insomma, un “problema” a geometria
variabile!
Tra l’altro, l’ultima protesta di Greenpeace in Thailandia è finita
in farsa: dopo aver scaricato per protesta qualche tonnellata di papaya OGM
davanti al ministero dell’agricoltura, molti Thailandesi sono corsi verso il
mucchio di frutti e se li sono portati a casa, per mangiarseli, incuranti dei
messaggi di “pericolo” che Greenpeace da anni ormai ripete. A quanto pare il
“messaggio” non li ha impauriti a sufficienza.
Un prodotto reale per risolvere un problema reale
Insomma, si accusano i sostenitori del transgenico di parlare sempre al
futuro, di fare sempre promesse di prodotti che non si vedono mai sui mercati.
Ecco, la papaya è un prodotto reale, sviluppato per risolvere un problema reale,
un’emergenza agricola reale che minacciava agricoltori in carne ed ossa.
Agricoltori che hanno salutato con entusiasmo la soluzione biotecnologica
offerta per salvare le loro aziende. E non stiamo parlando di multinazionali
dell’agroalimentare: i coltivatori di Papaya nelle Hawaii sono qualche centinaio
(tra 100 e 200), con un terreno in media di 10 acri.
Nelle Hawaii le
biotecnologie hanno salvato un prodotto tipico. Questo esiste ancora, ed è
possibile coltivarlo e acquistarlo. Poi starà alla libera scelta economica degli
agricoltori, che giustamente guardano al loro profitto, decidere se continuare
con la papaya o coltivare cetrioli.
E in Italia? Il Pomodoro San Marzano
Perché non potrebbe accadere anche in Italia?
In Italia abbiamo una lunga lista di prodotti tipici che
potrebbero essere “salvati” o quantomeno aiutati dalle biotecnologie. Dal riso
Carnaroli al melo della valle d’Aosta,
dal vitigno Nero
d’Avola al pomodoro San Marzano. Quest’ultimo è stato più volte citato dai
sostenitori degli OGM e ai loro detrattori, per cui ne riassumo brevemente la
storia.
La coltivazione moderna del pomodoro San Marzano è fortemente ridotta a causa
di virus patogeni, come il CMV (Virus del Mosaico del Cetriolo). Se una volta il
virus produceva danni accettabili, ora è un flagello che impedisce la
coltivazione su grande scala del pomodoro San Marzano perché il rischio di
perdere tutto il raccolto è troppo elevato. Riporto da uno studio
dell’Università di Milano sui possibili utilizzi degli OGM per i prodotti tipici
italiani:
All’inizio degli anni ottanta la Campania era leader indiscussa nella
produzione del pomodoro San Marzano, con almeno il 35% del totale
nazionale. Oggi, a causa della elevata sensibilità della pianta alle
virosi, la percentuale è scesa al 3%. Notevoli riduzioni
produttive si sono registrate anche nelle altre regioni meridionali.
Dagli
anni ‘90 il San Marzano è tutelato da una DOP (Denominazione di Origine
Protetta). Altri pomodori da industria sono oggi preferiti sulla base della
convenienza economica e della resistenza alle virosi. Tra questi, le varietà
“Roma” e “Chico III” e gli ibridi F1.
Il San Marzano continua ad essere molto
apprezzato per le sue qualità
organolettiche, per cui alcuni ibridi di forma
allungata sono utilizzati (o
contrabbandati) per sostituire il San Marzano
stesso nei conserve di “pelati”.
Secondo i calcoli dall’ISMEA, l’Istituto che
si occupa di statistiche in campo agricolo, la raccolta complessiva di pomodoro
da industria nel 2001 è stata di circa 4.8 milioni di tonnellate, con una
flessione del 16% rispetto al 2000. Anche la superficie coltivata nel 2001
(85.000 ettari) ha subito una riduzione del 12% rispetto all’anno
precedente.
Quindi ora le industrie alimentari utilizzano prevalentemente ibridi F1,
anche acquistati all’estero, o addirittura, qualcuno dice, salsa di pomodoro
acquistata direttamente dalla Cina. Esistono in natura dei pomodori che
resistono alle malattie a cui invece è suscettibile il San Marzano. Tuttavia non
è possibile procedere a degli incroci per trasferire la resistenza al virus,
perché si otterrebbero dei pomodori che non potrebbero più essere denominati San
Marzano, avendo ricevuto il 50% dei geni da una varietà diversa. Questi incroci
sono stati ovviamente fatti, ma non è possibile chiamare “San Marzano” il
prodotto. Vorremmo un “San Marzano” con tutti i suoi geni e le sue
caratteristiche, TRANNE la suscettibilità al virus. Questo non è possibile da
ottenere con le tecniche ad incroci, perché viene trasferito il 50% dei geni,
non solo uno.
E’ possibile, ed infatti è già stato fatto, modificare il
genoma del pomodoro San Marzano per renderlo resistente al virus CMV,
senza alterare le altre caratteristiche. Questo fatto viene
spesso citato dai sostenitori dell’agricoltura transgenica, tra cui il Prof.
Sala, forse lo scienziato, con l’ex-ministro Umberto Veronesi, più bersagliato e
attaccato dalla fazione Anti-OGM.
Il San Marzano ha anche altri problemi: ad esempio il TSWV (virus
dell’avvizzimento maculato). Lo studio dell’università di
Milano sostiene che
“sono già stati isolati geni in grado di conferire resistenza ai tre
principali virus (CMV, TSWV, CAMV). In Italia molto lavoro sperimentale è stato
condotto in istituti pubblici (Istituti Sperimentali del Ministero delle
Politiche Agricole e Forestali, Università, CNR) e privati (Metapontum Agrobios
di Metaponto) con ottimi risultati. Sono già stati prodotti pomodori
transgenici resistenti. In alcuni casi la resistenza è stata verificata
in prove in campo“
I virus non sono l’unico problema del San Marzano, e non è detto che le
biotecnologie possano risolvere anche gli altri. Ma e’ comunque un inizio non
credete?
Mi pare di poter dire che c’è assoluto bisogno di un maggior dialogo tra il
mondo agricolo e gli scienziati. Esattamente come successo per la papaya delle
Hawaii, anche in Italia gli agricoltori dovrebbero rivolgersi agli scienziati
per far conoscere i loro problemi e cercare assieme delle soluzioni,
anche usando le tecnologie transgeniche. Sapete quante colture
tipiche sono a rischio o sono già state abbandonate? Se vi interessa vi
consiglio di leggere questo rapporto
dell’Università di Milano.
Questo dialogo sarebbe bene avvenisse senza il filtro delle organizzazioni di
parte anti-biotech che hanno troppo spesso un approccio ideologico.
Sentiamo…
Carlo Petrini, fondatore di
Slow Food (associazione che apprezzo molto, ma non quando parla di OGM):
“Vorrei ad esempio ricordare che il «miracolo» della salvezza del San
Marzano è avvenuto tramite un Presidio Slow Food alcuni anni fa, senza ricorrere
al transgenico“
Ma quale “Miracolo”?? Se la riduzione dal 35% al 3% vi pare un successo….O
vogliamo ridurre tutti i prodotti italiani a delle nicchie piccolissime di
mercato per ricchi e pasciuti compratori?
La
Coldiretti:
“se si riuscisse ad ottenere con le biotecnologie il Pomodoro San Marzano
al Polo Nord sarebbe forse un successo per la ricerca, che nessuno deve fermare,
ma nulla avrebbe a che vedere con la tipicità, l’origine e il legame con il
territorio con lo caratterizza. La realtà è che la tradizione agroalimentare
italiana è riconosciuta in tutto il mondo e non ha certo bisogno di
manipolazioni. La nostra - ha concluso Bedoni - non e’ una scelta ideologica, ma
economica a tutela dell’impresa e dei consumatori“
Già, quegli stessi consumatori che ora si comperano le lattine di “simil-San
Marzano” pensando che sia quello vero…..Confrontate con quanto è successo alle
Hawaii, e sta accadendo in altri zone del mondo dove gli agricoltori chiedono
aiuto alle biotecnologie (a Cuba per esempio, anche qui niente “cattive”
multinazionali)
E infine una chicca: l’ex Ministro
Alemanno quando era ancora al governo:
“ho parlato ad esempio con Cragnotti, presidente della
Cirio, dei problemi del pomodoro san marzano e lui mi ha detto
che è possibile salvarlo senza il transgenico, ma con le normali biotecnologie
da innesto“
E’ preoccupante che un Ministro della Repubblica dia più peso alle
dichiarazioni di Cragnotti che non agli scienziati del campo, finanziati anche
dal suo Ministero. E visto come è finita la Cirio di Cragnotti non mi fiderei
troppo del suo parere…..
Insomma, spero di avervi almeno insinuato il dubbio che quando qualcuno
afferma “Gli OGM non servono per le colture tipiche italiane” non vi sta
raccontando tutta la verità. E non raccontare tutta la verità equivale a dire
una mezza bugia.
Arrivederci, e ricordatevi di chiedervi sempre “Perchè?”
Dario Bressanini
Riferimenti
Lo stato degli OGM nei
paesi in via di sviluppo
La Papaya
OGM
Altro articolo sulla
Papaya OGM
Comunicato
stampa dell’Universita’ di Cornell sulla Papaya OGM
Il San Marzano e il
Transgenico
Prodotti
Tipici e OGM: studio dell’Universita’ di Milano
BIOTECNOLOGIE
per la tutela dei prodotti tipici italiani
Barbara Basso, Dario Casati,
Dario Frisio, Benito Giorgi, Luigi Rossi, Francesco Sala
Edizioni
21°Secolo